C’era una volta…

Giornata finita. Lavorativamente parlando. Sto rientrando a casa quando un pallone mi sfreccia davanti agli occhi, rimbalza su di un’auto in sosta e rotola di nuovo verso di me. “Signore, mi passa il pallone?”. Signore? A me? Non ho mica… quarant’anni? No, in effetti ne ho di più e potrei essere il padre di quel ragazzino che mi guarda come se fossi mezzo scemo, fermo, con il pallone tra le mani e un’aria distratta dai pensieri che rimbalzano nella testa.

Lancio il pallone oltre la recinzione mentre, ad hoc, la radio del mio iPod sta passando una canzone di Bonnie Tyler, Total eclipse of the hearth, proprio nel punto in cui dice “Once upon a time…”.
“C’era una volta…”. Per dare enfasi alle fiabe o alle loro storie passate, i nostri nonni e i nostri genitori iniziavano così i racconti, e a noi quella “volta” sembrava così lontana, un passato remoto, anche se i nostri nonni avevano un’età prossima ai sessanta, i genitori ai trenta, ed i racconti riguardavano la loro giovinezza. Non così lontana, in fondo. Ora il “c’era una volta…” non si usa più, forse perché i racconti parlano di noi che ci sentiamo ancora giovani, nonostante siamo diventati i matusa dei nostri vent’anni, e non vogliamo arrenderci all’idea che il tempo è passato. Anche per noi.
Cerchiamo di rimediare alle disattenzioni che da giovani, troppo intenti a suggere la linfa di ogni istante di quegli anni, dedicavamo al nostro fisico, nella illusoria speranza che il tempo si dimentichi di noi, dedicandoci ad attività che dovrebbero mantenerci in forma, anche se spesso i risultati tardano a farsi vedere o non arrivano proprio. Siamo talmente presi dall’aborrire ogni sintomo dell’età che avanza, dal timore di cominciare a tirare delle somme, che non riusciamo ad apprezzare appieno quanto abbiamo avuto dalla vita. Perché a voler ben vedere, tutto ciò che abbiamo avuto, anche di più piccolo ed apparentemente inutile, di bello o di brutto, è comunque una parte fondamentale di noi, come lo è un granello di sabbia per l’esistenza di una spiaggia.
Mentre i pensieri viaggiavano non mi sono mosso, e prima di riavviarmi verso casa lo sguardo vola, con un pizzico d’invidia, oltre la recinzione, dove i ragazzini hanno ripreso a giocare. Toccherà a loro, fra trent’anni, sentirsi chiamare “signore” e trovarsi disorientati. Non gliene voglio per quel appellativo e gli auguro che, nel frattempo, abbiano la possibilità di poter vivere una vita tanto bella quanto lo è stata la mia fino ad ora.

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