L’estate se n’è andata, e con lei la spensieratezza delle giornate di sole, il calore che accarezza la pelle facendo dimenticare i problemi, la ricerca del refrigerio che ci distrae dalla quotidianità. Ha resistito quest’anno, non voleva cedere il passo, ma l’autunno era alle porte, pronto, con i suoi colori tenui, belli e tristi allo stesso tempo. Poi la spallata, il colpo di coda, la temperatura che cade e i primi accenni di una stagione che, diciamocelo, ha poco da regalarci. Non porta giornate più lunghe e nemmeno la neve, non invoglia ad uscire e neppure a starsene in casa davanti al camino. Insomma, intristisce. Almeno me. In giornate come queste mi piace abbandonarmi a riflessioni. Le più disparate. Magari aspettando il tram per tornare a casa, o su i tratti di strada percorsi talmente tante volte da non aver nemmeno bisogno di guardare dove metto i piedi. Così tra un’occhiata svogliata ad un gruppo di ragazzi pronti per l’aperitivo che dà il via al weekend e la frenesia degli automobilisti che cercano senza successo di oltrepassare code immobili, mentre i Guns’n’Roses, un poco in anticipo, mi accompagnavano con le note di November Rain, mi sono ritrovato a pensare alle parole silenziose.
Nascono dal nulla, o dal profondo. Dipende. Sedimentano nella nostra testa, scivolano tra i nostri pensieri, cercano di uscire ma rimangono lì, invischiate nelle nostre paure, frenate dalle nostre regole, limitate dai “non si dice”, dai “non va bene”, fino a convincerci che sia giusto, o meglio così. Sono quelle parole che si potrebbero leggere nei nostri occhi, nei nostri movimenti. Volendo. Sono le parole che raccontano la nostra anima, i nostri desideri, noi. Dicono tanto, tutto, forse troppo, e proprio per questo motivo ci spaventano e allo stesso modo spaventano i nostri interlocutori, così rimangono nella nostra testa, consumandosi, fino a spegnersi come la fiamma di una candela, quando la cera finisce e lo stoppino casca in quel liquido pronto ad inghiottirlo, solidificarsi ed imprigionarlo.
Quanti rimpianti scaturiscono da queste parole mai pronunciate? Quanti “avrei potuto” e “avrei dovuto” non avrebbero ragione d’essere? Se solo quelle parole fossero diventate suono, aggregandosi per comporre frasi dal senso compiuto, nell’istante in cui il loro divenir verbo avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi, probabilmente le nostre vite sarebbero diverse. Non migliori, forse, ma sicuramente non le stesse.
