Mezzanotte, un’ora suggestiva. L’ora in cui l’oggi diventa passato e domani il presente. A quest’ora è bello guidare se non sei stanco. La strada corre dritta in questa spianata tra le montagne. I fari illuminano l’asfalto. Dagli altoparlanti mi giungono delicate le note di Comptine d’un autre été: l’aprés-midi, meraviglioso pezzo per pianoforte di Yann Tiersen.
Qualche piccolo banco di nebbia si leva dai campi, conferendo un’aura surreale al paesaggio. Intravedo un’ombra lontana attraverso la foschia, in mezzo alla carreggiata, e un breve scintillio. Dalla parte opposta non arriva nessuno, quindi accendo gli abbaglianti per vedere meglio. Mossa stupida con la nebbia, ora un velo lattiginoso mi impedisce di vedere oltre. Rallento, il banco di nebbia si dirada e la vedo lì, davanti a me, immobile, quasi accecata dalla luce. Una volpe. Mi fermo, metto le quattro frecce e torno agli anabbaglianti. Lei, immobile, sembra fissarmi. I fari dell’auto come riflettori per la sua entrata in scena, non sembra avere intenzione di spostarsi, pare quasi voglia sfidarmi, fiera. In fondo questo era il suo regno, siamo noi che glielo abbiamo strappato. Rimango incantato a osservare il suo pelo rossiccio, la lunga coda, le orecchie ritte e gli occhi fissi su di me. Ci guardiamo per un tempo indefinito, potrebbe essere qualche secondo o qualche minuto. Non avrebbe importanza, se non fossi in mezzo alla strada. Poi, come si fosse stancata del tempo perso con questo insulso umano dalla vita facile, se ne va. Ha cose più importanti da fare. Deve cacciare, procurarsi il cibo, lottare per sopravvivere. Pagare il prezzo della sua libertà. La guardo scomparire nel buio che avvolge il prato alla mia destra, ingrano la prima, tolgo le quattro frecce e riparto, pensando a questo insolito incontro.
E’ incredibile quanto la natura abbia ancora da insegnarci. Per quanto l’uomo l’aggredisca, la violenti, continua per la sua strada, si adatta, indifferente all’uomo, e seguita a stupirci con le proprie meraviglie. Di tanto in tanto si ribella alla nostra stupidità, e ci fa male. Noi le chiamiamo calamità, ma sono le grida d’aiuto di un pianeta che noi non stiamo a sentire.